di Maurizio Matteuzzi
Haiti, arrivano i nostri
Imponente e immediata la risposta di Obama alla tragedia di Port-au-Prince. Haiti è di nuovo «americana», come già tante volte nel corso dell'ultimo secolo. Ma i rischi e le tentazioni della «economia dei disastri» e della «shockterapia» tipo Katrina a New Orleans, di cui fu il mentore il non compianto Milton Friedman, sono forti. E Naomi Klein lancia l'allarme
La reazione di Obama alla tragedia che ha colpito Haiti è stata prontissima e forte. 100 milioni di dollari subito come «prima tranche» di aiuti, migliaia di marines e truppe scelte della (piuttosto inquietante) ottantaduesima brigata aerotrasportata per pattugliare le strade ed evitare violenze e saccheggi, portaerei e nave-ospedale, la «riconversione umanitaria» del lager anti-islamico nella base cubana di Guantanamo, le U.S. Air Force Special Operation Forces che «si è impadronita» (parole della Repubblica) dell'aeroporto di Port-au-Prince e decide «chi può atterrare e chi no». Va bene, è «uno strappo alla sovranità nazionale di Haiti» ma anche prima «era comunque una finzione». Di fatto gli americani si ritrovano a governare Haiti come è già capitato un'infinità di volte.
Tutto bene e a fin di bene. Come a dire che, questa volta, gli Stati uniti di Obama – il primo presidente nero – «non dimenticheranno e non abbandoneranno» Haiti – la prima repubblica nera del mondo.
Ma gli Stati uniti non hanno mai dimenticato né abbandonato Haiti durante gli ultimi 100 anni (semmai l'hanno spolpata, ma questo è un'altro discorso). Altrimenti non sarebbe ridotta com'è ridotta: un Stato fallito del quarto mondo. E il terremoto non avrebbe avuto gli effetti apocalittici – almeno in termini di morti – che ha avuto.
Sia chiaro. Questo non è un processo alle intenzioni (anche se il primo anno di presidenza Obama si è caratterizzato, a giudizio quasi unanime, più per le buone intenzioni che per i risultati).
Ma Haiti è Haiti e la storia (dei suoi rapporti con gli Usa) è la storia. Per Haiti e la sua storia, i «buoni» Woodrow Wilson e Bill Clinton non sono stati molto (o niente) diversi dai «cattivi» Teddy Roosevelt e George W. Bush (Clinton e Bush, la strana coppia che Obama ha messo alla testa del team bipartisan di coordinamento degli aiuti).
Tutti si augurano che Obama abbia la forza e la volontà di rompere questo linkage perverso (e chi ne dubita si vada a leggere Noam Chomsky, non Fidel Castro o Hugo Chvez, a meno che anche Chomsky sia diventato troppo «anti-americano»).
Con le decine di migliaia di morti ancora sparsi fra le rovine di Port-au-Prince e la commozione del mondo di fronte all'apocalisse haitiana, forse è sgradevole parlarne adesso.
Invece bisogna parlarne. Adesso. E c'è chi ne parla. Ad esempio Naomi Klein, autrice di best-seller come No Logo e Shock Economy. Intervenendo a New York mercoledì scorso ha lanciato un «allarme» sulle intenzioni di quello che lei ha chiamato «il capitalismo dei distastri» (disastri naturali, disastri economici, disastri politici): «Stop them before they shock again». «Loro», quelli da fermare prima che colpiscano di nuovo, sono gli «shockterapeuti», gli adepti della «shockterapia» che il Nobel per l'economia Joseph Stigliz (altro noto «anti-americano») ha definito «i bolscevichi del mercato per la passione dimostrata verso il cataclisma rivoluzionario».
L'altra sera a New York la Klein ha detto che «deve essere assolutamente chiaro che questa tragedia – in parte naturale, in parte non naturale – non deve, in nessun caso, essere usata 1) per aumentare il debito di Haiti e 2) per portare avanti impopolari politiche favoriscono gli interessi delle nostre corporations. Questa non è una teroria del complotto. L'hanno già fatto più e più volte». E «sono pronti a rifarlo», ha aggiunto, citando a mo' di esempio un documento diffuso dalla Heritage Foundation, «uno dei sostenitori di punta dello sfruttamento dei disastri per imporre unpopular pro-corporate policies», in cui si leggeva: «Oltre a fornire immediata assistenza umanitaria, la risposta degli Stati uniti al tragico terremoto di Haiti offre l'opportunità di ridisegnare il governo e l'economia haitiane che da lungo tempo non funzionano, e di migliorare l'immagine pubblica degli Stati uniti nella regione».
«Loro», ha aggiunto la Klein, «non hanno aspettato neanche un giorno per sfruttare il devastante terremoto a Haiti e premere per le loro cosiddette riforme» e anche se poi quella frase è stata tolta dalla Heritage Foundation e sostituita con una «citazione più diplomatica», il loro «primo istinto è rivelatore».
Obiettivi economici a breve e lunga scadenza, obiettivi politici di riconquista dell'egemonia in un' America latina che da un po' di tempo tende a sfuggire loro di mano.
Un altro sito degli «shockteraputi», The Foundry, che si definisce «promotore di politiche e principi conservatori», sempre legato alla Heritage Foundation, scrive che, accorrendo per primi e in massa sul luogo della tragedia, «i soldati Usa hanno anche la possibilità di interrompere i voli notturni carichi di cocaina diretti a Haiti e la Repubblica dominicana dalle coste del Venezuela» (ma non venivano dalla Colombia filo-americana di Uribe?) «e di fronteggiare gli incessanti tentativi del presidente venezuelano Hugo Chávez di destabilizzare l'isola di Hispaniola». Non solo. «Questa presenza militare Usa, che dovrebbe anche includere una grossa presenza della Guardia costiera, ha anche la possibilità di prevenire un movimento su larga scala degli haitiani che si lanciano in mare su pericolose e rischiose imbarcazioni per tentare di entrare illegalmente negli Stati uniti». Così si riolverebbe anche il problema dei boat-people. Più in generale «gli Stati uniti dovrebbe portare avanti un forte e vigoroso sforzo diplomatico per fronteggiare la propaganda negativa che certamente verrà dal campo Castro-Chávez. Questo sforzo servirà anche a dimostrare che il coinvolgimento Usa nei Caraibi resta un forza poderosa per il bene delle Americhe e del mondo»
Obiettivi del resto ben chiari, per chi guardi al ruolo degli Stati uniti senza farsi obnubilare dal fascino di Obama, anche al Brasile di Lula che sta cercando, come scriveva ieri Europa, «di contendere la leadership umanitaria di Obama a Haiti», con soldi e aiuti anche se su scala infinitamente minore (mentre una coltre si silenzio copre gli aiuti di paesi come Cuba e Venezuela). Lula, di fronte alle critiche della sinistra interna (anche il Pt, il suo partito) contro «la forza di occupazione» della missione di stabilizzazione inviata dall'Onu a Haiti nel 2004, ha giustificato la preponderanza del contingente brasiliano (1200 uomini) con la necessità di controbilanciare il peso degli Usa nel paese e nella regione caraibica. Ma, per ora, il ruolo di «buono» nella tragica storia haitiana ha un solo nome e un solo protagonista: Obama.
Tutti auspicano un happy end per Haiti. Ma il richiamo con l'uragano Katrina, che nel 2005 spazzò via New Orleans, è forte e inevitabile. Allora il non compianto professor Milton Friedman, il guru della «economia dei disastri» e della «shockterapia», scrisse un'editoriale sul Wall Street Journal che Katrina era una tragedia ma anche «un'opportunità», e un deputato della Louisiana disse che «finalmente siamo riusciti a ripulire il sistema della case popolari a New Orleans. Noi non sapevamo come fare, ma Dio l'ha fatto per noi».
Ora «Dio» l'ha fatto con Haiti. Allora alla Casa bianca c'era Bush, oggi c'è Obama. Vedremo cosa farà. Già stanziati 450 milioni
L'Italia ne manderà 1,5 Mentre ieri il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha lanciato un appello per ottenere 550 milioni di dollari in aiuti di emergenza destinati ad Haiti, è stata raggiunta la cifra di circa 450 milioni di dollari in aiuti monetari annunciati da più Paesi. La lista dei donatori vede in prima linea Stati Uniti, Canada, Fondo Monetario e Banca Mondiale, che hanno assicurato l'invio di 100 milioni di dollari ciascuno. Seguono la Croce Rossa Internazionale e il Brasile con 10 milioni ciascuno, la Gran Bretagna con 9, Australia e Giappone con 5. L'Unione Europea invierà 4,37 milioni così come la Spagna, l'Italia è più indietro della Svizzera, dell'Olanda e della Germania, con 1,46 milioni, ma supera la Cina che ha annunciato un milione.
(tratto da http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100116/pagina/
08/pezzo/269156/ )